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Mad Men – 7×06 – The Strategy

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mad men 7x06

Di non aver lasciato niente, di non avere nessuno.

Mad Men si potrebbe riassumere interamente così, nelle poche parole strappate da Peggy a Don in uno di quei rari momenti di onestà, quando il velo si strappa e per un attimo intravediamo cosa si nasconde dietro. E ciò che si nasconde dietro è la semplice e banale paura che alimenta ogni desiderio umano: quella di non essere ricordati, di restare da soli. Eppure se scaviamo ancora un po’ e grattiamo via l’impalpabilità di un’affermazione tanto ovvia, forse possiamo toccare qualcosa.

That I never did anything and that I don’t have anyone.

Non aver fatto o lasciato nulla, non avere nessuno. In altre parole, non possedere né tramandare alcuna prova della propria esistenza, che può essere determinata solo da qualcosa o qualcun altro, mai da se stessi. Non più “penso quindi sono”, non più “essere o non essere”. Ma “possiedo quindi sono”, “essere o non avere”.

The Strategy

Scritto da Semi Chellas. Diretto da Phil Abraham.

Il penultimo episodio di questa prima tranche di stagione finale (che tu sia dannata per sempre, AMC!) ruota attorno al concetto di famiglia e lo fa in maniera abbastanza chiara, diretta. O meglio, ruota attorno all’idea generata dal concetto di famiglia. La “famiglia” si manifesta infatti come una proiezione dei protagonisti, una categoria riconoscibile e riconosciuta, un’immagine che si è portati a ricostruire ma priva di alcuna aderenza al reale. D’altronde l’episodio si apre con il pitch di uno spot che si basa su un inganno, un raggiro consolatorio (l’affaire extra-coniugale che si rivela intra-coniugale), il tentativo di colmare un vuoto con un’invenzione narrativa: l’uomo procura il cibo, la donna è felice, la famiglia è salva.
Come abbiamo ormai imparato in sette stagioni di Mad Men, l’idea di famiglia è un’invenzione e una costruzione universalmente condivisa. In The Strategy però più che “costruzione” si sviscera la “ricostruzione”, la salvaguardia, il restauro di questo costrutto decadente e decaduto. È un processo intrapreso da tre personaggi maschili, ossia Don, Pete e Bob, mentre alle donne spetta il dissolvimento di questa illusione “famigliare” partorita nel luogo che le è deputato: la casa.
Don e Megan. Osserviamo Don sistemare l’appartamento, rimettere a posto il centrotavola che aveva spostato per fare spazio ai documenti di lavoro e alla macchina da scrivere. Tutto deve ritornare esattamente com’era. E così Megan. «I miss this», le dice Don, mentre lei risponde «I miss you», cercando di colmare quel gap che non è causato dal fuso orario, quella distanza che non è geografica. Perché se a Megan manca Don, a Don manca il Don che è con Megan. Megan così diventa il simbolo di qualcosa che è andato smarrendosi, come lo spot di Burger Chef della mamma al volante. D’altronde, proprio come la mamma dello spot, Don guarda rapito Megan attraverso uno schermo, quello della finestra della sua camera da letto. Ma Megan è “not here”, non più.
Pete e Bonnie e Trudy. Pete varca finalmente la soglia di quella che si è impuntato a considerare casa propria. Un’altra dimora lui non l’ha nemmeno cercata: nonostante i tentativi di Bonnie, il suo nuovo interesse amoroso, la sistemazione di Los Angeles è ancora provvisoria, mentre a New York Pete se ne sta in un albergo. In casa trova una figlia che non lo riconosce, una domestica che non ha mai incontrato e una moglie che non si è proprio presentata. Nonostante un tentativo di ristabilire l’ordine, non può che fare i conti con la dura realtà dei fatti. «You’re not part of this family anymore», gli dice chiaramente Trudy. Cacciato da casa sua, incapace di trovarne una nuova con Bonnie, Pete galleggia nel “not here”, che è sinonimo di “nothing” e “anyone”.
Bob e Joan. Davanti all’offerta di lavoro della Buick, Bob deve diventare quel “tipo di uomo” che l’azienda pretende e che una casa, quindi una famiglia, permette di apparire. Anche lui condannato al “not here”, ha ora bisogno di un luogo che lo identifichi. Non importa se dietro quella facciata non c’è nulla, perché la facciata è ciò che costituisce un’identità socialmente accettabile. Ma Joan lo respinge. La donna che più volte è stata usata e che si è lasciata usare come strumento per raggiungere uno scopo, si rifiuta di partecipare a questo gioco, aderendo invece a un altro immaginario, quello dell’amore romantico, a cui ha bisogno di credere.

E poi c’è un personaggio che non si limita a puntare il dito contro l’inganno di cui è stata complice, ma che prova a dipingere un quadro nuovo, un nuovo “here”: è Peggy, perseguitata dallo spot di Burger Chef come Don da quello della Samsonite in The Suitcase, di cui The Strategy si rivela essere perfettamente speculare.
Messa in discussione la sua posizione dalla presenza di Don e dal suo essere ancora considerata “good as any woman in this business” (ossia le segretarie), Peggy comincia a dubitare del proprio lavoro e con esso dell’immaginario a cui fa riferimento, un immaginario in cui lei non si riconosce e di cui non fa parte. Perché una famiglia lei non se l’è ancora creata, un posto non ce l’ha. O forse sì?
Aiutata dall’unica persona in grado di leggerle dentro, Don, come lei aveva aiutato con lui la notte della vittoria di Cassius Clay su Liston, si troverà a ragionare sul proprio percorso. Compiuti 30 anni (The Suitcase era ambientato nel giorno dei suo ventiseiesimo compleanno), Peggy fa un bilancio della propria vita, mentre analizza i desideri e i bisogni del target a cui lo spot di Burger Chef si rivolge. La conclusione a cui giunge è una rivoluzione copernicana del rapporto tra casa e famiglia: la famiglia non orbita più attorno alla casa, la casa è soltanto uno dei suoi satelliti. È la famiglia a generare la casa (nel senso più caldo di “home”, dimora), non ne è generata. Può essere un tavolo di un fast food, un ufficio, può essere quel luogo lontano da tutto e tutti che sogna Megan per lei e Don, può essere quel “better place” a cui faceva riferimento Stephanie (guarda caso vista nello scorso episodio) nell’informare Don della morte di Anna. Un posto in cui stringersi la mano (come Don e Peggy fanno in The Suitcase) e ballare, in cui riposare e dormire (sempre in The Suitcase, dopo che Don ordina a Peggy di andare a casa e dormire, lei va nel suo ufficio e si addormenta sul divano), in cui poter spezzare il pane con la tua famiglia. Un rituale religioso, un luogo reso sacro dalle persone lo occupano. Da Don, Peggy e Pete. Una famiglia.
Poi, nello splendido carrello che chiude l’episodio, anche questo pensiero si rivela per quello che è: un’illusione. Un’immagine che passa attraverso la vetrata del fast food, attraverso l’ennesimo schermo. Eppure è un inganno a cui crediamo, è impossibile non farlo. D’altronde Weiner, come tutti i grandi Autori, è un ottimo pubblicitario.

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